Archivi del mese: giugno 2015

Lampi nel buio

” Cos’è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l’illusione mi abbandona – medito sul passato; m’affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla.”

[Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis]

Sono convinta che l’istinto a far partecipe il pubblico delle nostre confidenze, ci derivi dalla condizione di “esuli” nella quale tanto spesso ci troviamo. Viviamo vite da esiliati, ogni volta che non sappiamo dove andare, non sappiamo cosa fare, non sappiamo deciderci su come fare bene una cosa e perché non vediamo sul nostro orizzonte nessuna possibilità per noi, nessuna soluzione. E quando avviene che questo dramma umano, tocchi allo stesso tempo tanta gente, compresi quelli che ci sono attorno, che ci sono anche cari, allora la percezione della sensazione di esilio – da noi stessi e dal mondo – anziché smorzarsi e farsi più sopportabile, in quanto condivisa e compresa dal prossimo , proprio per questo, si fa invece insostenibile e più disperata, ed ancor più appare irrisolvibile, nella sua generalità.
Cediamo. Una resa senza più speranze, senza più forze residue, quasi come ferro forgiato, battuto… quante volte è accaduto di sentirci in questa condizione durante la vita, con la sola forza reattiva del battito del nostro cuore. Questi periodi tanto critici della nostra storia, sono eppure illuminati da lampi di vitalità e di genialità: il dolore d’improvviso non è più sterile, inizia ad innalzarsi in noi, a salire sempre più dal nostro intimo, fino ad uscirne, diviene la nostra forza maggiore, ci sostiene e ci spinge a comunicare la parte non visibile di noi.
Sono sempre rivelazioni toccanti e coinvolgenti; la stessa pena, che affligge allo stesso modo tanti di noi, seppur anche in luoghi fisicamente lontani tra loro, si fa condivisione e vicinanza di cuori. Una comunanza di sentimenti e di luoghi, universalmente riconosciuti, attraverso la sincerità e spontaneità della confidenza, ci tocca nel profondo e ci accarezza. E’ un motivo che ci suona dentro, in musica ancor più che con le parole. Proprio come avviene attraverso le canzoni della musica leggera.
Vale la pena fissare un po’ l’attenzione su alcuni testi esemplari di canzoni italiane, brani senza tempo, densi di significato:
Amara terra mia
di Modugno – Bonaccorti

Sole alla valle, sole alla collina, per le
campagne non c’è, più nessuno.
Addio, addio amore, io vado via,
amara terra mia, amara e bella…

Cieli infiniti e volti come pietra, mani
incallite ormai senza speranza.
Addio, addio amore, io vado via,
amara terra mia, amara e bella…

Tra gli uliveti, nata già la luna, un bimbo
piange, allatta un seno magro.
Addio, addio amore, io vado via,
amara terra mia, amara e bella…

Paese mio (Che sarà)
di Migliacci – Fontana – C. Pes

Paese mio che stai sulla collina,
disteso come un vecchio addormentato
la noia, l’abbandono, il niente son la tua malattia,
paese mio ti lascio io vado via.

Che sarà, che sarà, che sarà.
Che sarà della mia vita chi lo sa.
So far tutto o forse niente, da domani si vedrà,
e sarà, sarà quel che sarà.

Gli amici miei son quasi tutti via
e gli altri partiranno dopo me.
Peccato perché stavo bene in loro compagnia,
ma tutto passa, tutto se ne va.

Che sarà, che sarà, che sarà.
Che sarà della mia vita chi lo sa.
Con me porto la chitarra e se la notte piangerò,
una nenia di paese suonerò.

Amore mio ti bacio sulla bocca
che fu la fonte del mio primo amore,
tu do l’appuntamento dove e quando non lo so,
ma so soltanto che ritornerò.

Che sarà, che sarà… … … ..

Nella prima canzone (“Amara terra mia”), fin dal titolo, sentimentale e struggente, compare un duplice senso o significato, nel dettare il tema stesso del testo, che è quello del sentimento di amarezza, dal dover andarsene da ciò che si ha di più caro e quindi anche del sentimento di amore; amore-amarezza, per la propria terra e insieme per la donna amata, donna appena accennata, nel ritornello ripetitivo, quasi affannoso, in cui si scioglie tutta la sofferenza di un doppio addio. Un intreccio di amore bello ed amara disperazione, che seguita lungo tutto il testo e che ad ogni strofa si chiude sull’aggettivo “bella”, espresso accoratamente, allungando con il canto la parola, fino a lasciare nell’aria un ché di sospensione…
Anche l’aggettivo “mia”, presente sia nel titolo che nel testo, evoca spontaneità ed amore, mima un abbraccio, trasmesso attraverso una melodia lenta ed ondeggiante, come un gesto che quasi dipinge i lunghi flutti del mare, che via via allontanano il protagonista dal suo bene. Dondolano le sue parole e sfiorano, ora la terra dei suoi natali, ora la donna della sua vita, tratteggiate in termini che sono simboli dell’una e dell’altra: valle, collina, campagna, la durezza della pietra e gli uliveti nella notte (religioso retaggio di attesa di un domani indesiderato, ultimo giorno, ultima notte); e dall’altro lato, volti, mani, un bimbo, un seno, in un finale di paesaggio desolante, alla luce della luna (femminile). Su tutto domina una povertà magistralmente espressa in termini di privazione: privazione di genti, di speranze, di segni di opulenza (“seno magro”); la geografia di un paesaggio in cui il sole è solitudine e l’infinità del cielo è il vuoto, tutto è il nulla, geografia della disperazione, in cui il profondo e definitivo addio appare senza percezione di riscatto e di ritorno.


La seconda canzone (“Paese mio” – “Che sarà”), ha in comune con la prima il tema dell’addio e della partenza, da un luogo e da persone care, identica la frase di chiusura “io vado via”. Ed ugualmente si ritrova, a partire dal titolo, la parola dell’abbraccio e cioè l’aggettivo “mio”; riferito al paese intero, agli amici, alla donna amata; pilastri della vita di ognuno, temi cari a tanti autori, cantati e celebrati da sempre (non si può non ricordare il crescendo cantato dal “Rigoletto”, nella celebre opera di Verdi, nel rivolgersi alla propria figlia, suo bene più caro, suo solo universo: anche qui il protagonista elenca, con la solennità dell’aria verdiana, quelli che unanimemente sono i punti fermi ed il sostegno della vita e della dignità di ogni uomo, la patria, la famiglia, gli amici…), ma questa seconda canzone, diversamente dalla precedente, comunica sì la tristezza dell’allontanamento – che però qui appare come una scelta frutto della propria volontà e non una forzatura sentita quasi fosse una condanna – ed anche qualcosa di più, la speranza in un domani, trepidazione e insieme curiosità per la vita che il protagonista sa di avere davanti a sé; un’attesa non sterile, la voglia di fare e di vivere.
Due stati d’animo si percepiscono nel testo. Uno fatto di sentimenti che riconducono al tema della separazione, del distacco, della partenza: melodia e parole concordano perfettamente, quando esprimono e descrivono nelle strofe l’indolenza di tutto un paese e della vita che il protagonista si appresta a lasciare, il rammarico per la fine di un bel periodo che egli già archivia fra i ricordi del passato e, la decisa volontà di ritornare, egregiamente espressa nella dignità del saluto alla donna amata, non un addio per sempre, ma un arrivederci, sottolineato dalla ferma certezza di un futuro ritorno, fissato in un simbolico appuntamento. A questo stato d’animo, quasi contrapposto, è il tema del ritornello, ripetitivo nel rimarcare l’incertezza sulla propria vita futura: la musica qui cambia e sottolinea una geografia del tempo, in cui il soggetto dichiara un cambio di vita, a partire da un momento preciso, da domani stesso, “da domani si vedrà”; nel suo guardare avanti non c’è rassegnazione, ma semmai accettazione, c’è apertura e disponibilità, volontà di affrontare il destino, una certezza di cambiamento, con il sostegno del proprio retaggio, senza cioè perdere se stesso e senza disperare di avere consolazione nel momento triste della nostalgia, la notte, il tempo del pianto.
E’ la canzone di un giovane che sa di avere un una vita da giocarsi e che idealizza il proprio futuro, il proprio tempo. Nel salutare il suo paese natio compie il gesto di addio alla sua infanzia trascorsa.
La precedente canzone, ha il tono di un amante sofferente, lamento antico, sensuale e languido. Quest’ultima canzone, ha i colori di un ragazzo, che manifesta il suo affetto di figlio prima di spiccare il volo per la prima volta.figurino ombrellino


Un piacere

” E infinite volte, a proposito di un qualunque per quanto futile particolare, mi capitava di esclamare: “Dio mio, come ho fatto bene a venire in Italia!”

[ Stendhal ]

Talvolta le nostre confidenze hanno l’effetto di determinare un confine, di evocare un luogo, un’area geografica vera e propria, che può essere fisica e reale, come anche mentale e sentimentale; anche i sentimenti rivestono nel nostro intimo una collocazione, definibile a tutti gli effetti geograficamente, e di cui, quanto più è sincera e appassionata è la nostra confidenza e generoso il nostro aprirci, tanto più ne rendiamo percepibile e realistico il sito.
La descrizione-condivisione del nostro spazio vitale, dell’ambiente fisico che ci fa da contorno, diventano realtà osservabili, attraverso le nostre parole. Ma non solo, perché grazie alla nostra generosità, noi possiamo contemporaneamente rendere visibili anche gli ambienti della nostra psiche, del nostro desiderio: si spalanca una porta verso un orizzonte geografico immenso, che contempla tutto ciò che riusciamo a provare, a capire di noi stessi e ad esprimere, a modo nostro, persino con il silenzio; e tutto ciò che si è disposti a recepire, sentire, immaginare, da parte dei destinatari delle nostre confidenze, portatori anch’essi di infiniti luoghi geografici interiori. Che bello però! Forse è anche questo il fenomeno a cui alludiamo quando diciamo che qualcosa “ci tocca il cuore”.
Troppe poche volte diamo dignità a certi momenti personali, che non sono poi così rari nella nostra vita, anzi, tutt’altro; ma ci blocca lo scudo di cui ci armiamo ogni giorno, quando smettiamo di cedere al potere del sonno e del nostro inconscio, ci blocca e ci protegge da quella beata infanzia che sempre è in noi, che celiamo ed insieme serbiamo, in vista dell’ultimo istante.
Altre volte, ci tocca la fortuna di avere avuta la perspicacia di non mandare persi certi nostri stati di grazia, momenti di grande intensità, piccole fioriture di breve durata, colte al volo e fissate in poche righe, in un disegno, in musica e che, inaspettatamente ritroviamo, quando il momento è ormai spento e dimenticato. A rendercene memoria è oggi solo il segno che ne abbiamo voluto lasciare, chissà poi perché.

Stavolta è arrivato un uccellino, piccolo piccolo. non è il solito merlo e neppure un passero, ma è ancora più piccino. E’ venuto come gli altri a mangiare le bacche di alloro, ma purtroppo non lo intravedo un granché bene, nel fitto dei rami, tra le foglie grandi come lui: è in ombra, non distinguo neppure il colore delle piume. So soltanto che c’è e si muove.
Saltella su e giù, qua e là e non si accorge di me, che immobile lo osservo. Ma se ora mi muovo dalla sedia, se mi avvicino di più alla finestra, certamente se ne andrà e tutto finirà.
Quando faccio colazione, sto sempre vicino ad una finestra, devo avere un orizzonte da guardare. Qui c’è un albero di alloro, che quasi sfiora il vetro, una vecchia recinzione fitta di edera e caprifoglio e, subito dietro, la strada, la via rumorosa e piena di vita.
Senza gli occhiali scorgo solo un panorama sfocato, lo distinguo appena, l’uccellino, molto devo immaginarlo, un’impressione tutta mia di perfezione, una mia personale realtà di perfezione: offuscato dalla miopia, il quadro non rappresenta i difetti del vero. Però in questo momento, mi mancano i miei occhiali, solo vorrei vedere l’uccellino piccolino. Alzarmi da questa sedia su cui mi sono pietrificata, senza che mi noti e dirigermi nella direzione opposta alla finestra, per poter prendere i miei occhiali e da lì, senza neppure tornare alla finestra per evitare di fare altri movimenti, mettere a fuoco lo sguardo; mi accontenterei.E invece niente, resto qui ferma, a fare strani movimenti con i muscoli degli occhi, cercando di vedere quanto più mi è possibile nitidamente senza l’aiuto delle lenti. Evito di fare movimenti, bruschi o lenti: sono bestiole molto guardinghe.
Non se ne va ancora, adesso saltella sui rampicanti, sostenuto dal filo zincato della rete. Non lo ravviso più, forse è sceso in basso e si è posato sul muretto o forse, è volato via. Mi sono distratta. Non oso allungare il collo verso il davanzale, per poter guardare più in basso.
In questo istante il mio orizzonte geografico è definito geometricamente da un rombo o meglio, è tutto in due triangoli: quelli dei vuoti lasciati liberi dalle tendine, fermate ai lati della finestra. Una visuale davvero limitata. E tutto ciò a causa di un uccellino cittadino, che ora però non vedo più; il mio spazio reale è circoscritto da una debole speranza, un desiderio, il desiderio di spiare un uccellino libero ed ignaro, un piacere…figurino lingerie