Archivi tag: dolore

Sensuale

“… la Principessa seduta accanto a lui tese la mano infantile e carezzò la potente zampaccia che riposava sulla tovaglia.”

[Tomasi Di Lampedusa, “Il Gattopardo“]

Sempre torno sull’argomento degli abbinamenti a contrasto, che tanta parte hanno nella mia vita di ogni giorno, come nel mio confidarmi.
Situazioni stridenti e dolci, nella loro ingenua naturalezza, belle ed impossibili. Il loro manifestarsi ha una grande attrattiva su di me; come luce di falena, ne resto affascinata e le cerco, le compongo, le suscito, le chiedo, supplico… E’ mia debolezza, lo so, lo confesso, ben mi rappresenta, ma da essa dipende molta della mia vera forza; sono le straordinarie complicazioni del vivere, necessarie quanto e più di una medicina.
Come è la voluttà stessa, che per verecondia quasi stento qui a confidare, con cui anelo persino a quel tanto di dolore fisico su di me, che ha la sua parte, sopra il materasso, su di un divano o poltrona, scrivania, sedia, tappeto, sedile… (basta, basta, basta), nell’atto di giungere al massimo grado di contatto, interno… Un dolore gentile, che io conosco bene e che mi aspetto ogni volta, ma che, ogni volta, puntuale mi sorprende.
Eppure io lo desidero, lo chiamo a me, per mia colpa, mia grandissima colpa: mi regala, unito ad altre sensazioni, un appagante senso di completezza, in quel piacere mio proprio, segreto ed unico, non condivisibile, dello stupefacente contrasto che si instaura, tra la (involontaria?) “cattiveria” di lui e, la infinita “bontà” mia.

“Le mentitrici o le maniache ci fanno piuttosto pietà; ma l’umiliazione delle altre, delle sincere, è contagiosa. Soltanto in quel momento ho compreso il segreto dominio di questo sesso sulla storia, la sua specie di fatalità. […] Non sapevo nulla di quell’impeto silenzioso che sembra irresistibile, di quel grande slancio di tutto l’essere verso il male, verso la preda […] ciò era quasi bello…”

[Georges Bernanos, “Diario di un curato di campagna“]dafne001


Il baratro e qualcuno

“Un niente basta a far battere un cuore, come un niente lo può fermare. E se un niente può fermarci sull’abisso, la speranza fa suo questo niente; vi si incarna, ne prende il volto e la voce. La speranza vede la spiga quando i miei occhi di carne non vedono altro che il seme che marcisce.”

[Primo Mazzolari]

 
Oramai potrei definire consueto, il lavoro di breve analisi e comparazione di testi di canzoni italiane, le quali vertono, in modi non univoci, su di uno stesso argomento o tema anche secondario oppure di fondo, espresso in ognuna in maniera originale, unica, così come unica considero ogni canzone, nel senso di composizione e musica, nella sua epoca d’oro; sono opere della nostrana musica leggera, reali, rappresentative di tutto un genere artistico e di altri ad esso collegati e collegabili, come pure dei personaggi e della storia umana che vi gira attorno.

Il mio interesse si sofferma su testi, che attraverso sentieri di parole, esprimono sì dei sentimenti, ma anche conducono o ispirano luoghi geograficamente definiti, precise scenografie, tanto reali e fisiche, quanto riaffioranti da ricordi di episodi e gesti, interiorizzati nel passato ed evocati al presente, come per un gioco, più o meno esplicito, un “vorrei e non vorrei”, che maggiormente coinvolge il lettore-ascoltatore.
E proprio “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi” è il titolo della prima canzone qui presa in esame, mentre “Meraviglioso” è il titolo della seconda.

Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi
di Battisti – Mogol

Dove vai quando poi resti sola?
Il ricordo come sai non consola…
quando lei se ne andò per esempio
trasformai la mia casa in un tempio

E da allora solo oggi non farnetico più
a guarirmi chi fu?
Ho paura a dirti che sei tu.
Ora noi siamo già più vicini
io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…

Come può uno scoglio arginare il mare?
Anche se non voglio torno già a volare…
Le distese azzurre e le verdi terre,
le discese ardite e le risalite
su nel cielo aperto, e poi giù il deserto
e poi ancora in alto con un grande salto…

Dove vai quando poi resti sola?
Senza ali, tu lo sai, non si vola…
Io quel dì mi trovai per esempio
quasi sperso in un letto così ampio

Stalattiti sul soffitto i miei giorni con lei
io la morte abbracciai
ho paura a dirti che per te mi svegliai…
Oramai fra di noi solo un passo
io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…

Come può uno scoglio arginare il mare?
Anche se non voglio torno già a volare…
Le distese azzurre e le verdi terre,
le discese ardite e le risalite
su nel cielo aperto, e poi giù il deserto
e poi ancora in alto con un grande salto…
Meraviglioso
di Pazzaglia – Modugno

E’ vero, credetemi è accaduto
di notte su di un ponte
guardavo l’acqua scura
con la dannata voglia
di fare un tuffo giù.
D’un tratto qualcuno alle mie spalle
forse un angelo vestito da passante
mi portò via dicendomi così.

Meraviglioso, ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia meraviglioso
meraviglioso, perfino il tuo dolore
potrà apparire poi meraviglioso

ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto
ti hanno inventato il mare
tu dici: “Non ho niente”
ti sembra niente il sole
la vita, l’amore.
Meraviglioso, il bene di una donna
che ama solo te, meraviglioso
la luce di un mattino
l’abbraccio di un amico
il viso di un bambino, meraviglioso.

Ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto
ti hanno inventato il mare
tu dici non ho niente
ti sembra niente il sole
la vita, l’amore, meraviglioso.

La notte era finita
e ti sentivo ancora
sapore della vita
meraviglioso, meraviglioso,
meraviglioso ecc…

In entrambi i testi, si sviluppano narrazioni di eventi trascorsi, scandite da un susseguirsi di frasi per lo più brevi, concise, esplicite; semplici descrizioni o affermazioni generose e carezzevoli, con intento di convincere e consolare, come avviene nel secondo testo (dal nono verso in poi).

In luogo di addentrarmi in spigolature, volte ad evidenziare gli estremi geografici di spazi intimi propri dei personaggi di cui canta il testo, mi preme stavolta soffermarmi su di un solo aspetto, fra i tanti, e che è comune ad entrambe le due canzoni e cioè, sul pensiero puro della morte, della propria morte.

Nel secondo testo, quasi a dispetto del titolo stesso (“Meraviglioso”), l’idea della morte occupa la strofa d’inizio, quasi un antefatto, un vassoio sul quale offrire poi, tutta la dolcezza (non sdolcinatezza) del resto della canzone, un lungo abbraccio salvifico, come appunto può essere quello di un amico, esplicitamente citato al verso 22; e che quasi attraverso un niente, raggiunge il suo scopo. Dico niente, perché è al niente citato dal cantante-narratore-io del testo, che il secondo protagonista contrappone la positività delle cose che chiunque ha o può avere, al costo di un niente, appunto.

Nella prima canzone, la morte, anche se qui diversamente dalla seconda, è chiamata espressamente con il suo nome, è però invero appena accennata, nominata in quell’unica volta, al verso 21, al più adombrata al precedente verso 20 e poi, mai più compare.
Ma tanto basta, perché a quel punto e da quel punto in poi, si giustifica su tutto il testo, anche precedente, una più tetra lettura, la percezione di un disastro interiore. Anche qui, è la presenza viva di una nuova persona, che mette in moto quel meccanismo di rinascita da cui l’essere umano attinge, seppur non volendo, come ripete languido il cantante-soggetto; una risorsa dalla portata a noi stessi sconosciuta…

cameriera


Negazione

“Un amoroso sguardo, un dolce riso
mi fanno un tempo star lieto e contento
ma, se tal’ora disdegnosa in viso
vi veggio, resta il cor tristo e scontento.
Così or sono in vita ed ora ucciso,
siccome veggio in voi far mutamento:
e in questi duo contrari è dubbio in core
qual maggior sia o ‘l piacere o ‘l dolore.”

[Angelo Ambrogini detto il Poliziano]

Che cos’è, quella smania, che tanto ci prende, fin nei momenti più scontati della nostra esistenza? Ci bracca, ci assale; tanto sul far della sera, come pure nell’assonnato risveglio mattutino. Un’insofferenza profonda ed improvvisa o peggio, continua e costante, accompagna ed indirizza le decisioni, le scelte, la disposizione d’animo ed anche, quel modesto senso artistico, avuto in dotazione dalla natura.
Spesso, un’opposta razionalità, reagisce all’idea di debolezza, che questo stato d’animo descrive in noi ed, ostinatamente vi resiste, in un conformistico tentativo di difesa, da ciò che di noi stessi, in fondo, ci fa vergogna, solamente perché all’apparenza ci rende vittime.
Altre volte però, senza ben sapere e, senza neppure domandarci, dove mai la cosa ci porterà, a volte, scegliamo più o meno consci, di seguire incantati il nostro animo inquieto; finalmente leggeri, galleggiamo in balia di qualcosa che, vittime o no, ci appaga.

Quando i miei occhi, hanno bisogno di rivedere il bel viso rubizzo e godereccio, di mio marito ed, il suo sguardo brillare, come quello di un ragazzo appassionato e goloso, nel piacere provato dai sensi, riflesso sul suo volto, allora, io mi accingo a cucinare, qualcuno dei suoi piatti preferiti, dedicandomi completamente a lui, solo a lui. E mentre compio i gesti necessari, per preparare ciò che so che gli piacerà, mi immergo in pensieri e desideri, positivi e rasserenanti, fino a sprofondare, quando già la preparazione è giunta a compimento, in fantasie idilliache ed abbinamenti curiosamente “spinti”, di gusto squisitamente femminile: le sue mani giocattolo, sul mio corpo, mentre sta gustando il cibo che io gli ho dato. Ed anche se, tutto preso dai piaceri della gola, non agisce su altre sfere, io mi appassiono talmente alla di lui soddisfazione fisica, da cullarmi, lusingata del bene che gli sto procurando, godendo a lungo di questo momento.
E’ una situazione del tutto simile, alla strana simpatia, che sempre provo per lui, quando, nello svestirsi in mia presenza, con un gesto insieme scherzoso ed arrogante, mi colpisce lievemente con la sua pesante cintura da uomo, come ad infliggermi una ridicola frustata, di punizione e di piacere insieme, per una mia monelleria o semplicemente, per la mia stessa presenza fisica. La stessa cosa provo, per la sculacciata che mi tocca “subire”, in chiusura, ogni volta in cui chiedo a lui, girandomi di schiena al suo cospetto, di tirarmi giù la lampo dell’abito, che ho intenzione ti togliermi. Ed io, ne gioisco intimamente, perché so, com’è un uomo.

donnina e luna“Mi sembra che l’anima più libera sia quella che più dimentica se stessa; se mi si domandasse il segreto della felicità, direi che sta nel non tener conto di sé, nel negarsi sempre. Ecco un buon modo per far morire l’orgoglio: prenderlo per fame!”

[Elisabetta della Trinità]


Essere e non essere

“Soffri indegno dolore e si smarrisce l’animo tuo prostrato nel delirio; come un medico inabile sorpreso dal male, t’abbandoni, e ti vien meno il rimedio che valga a risanarti.”

[Eschilo, “Prometeo“]

Era da tempo che pensavo di tornare a curiosare sui testi di canzoni di musica leggera. In particolare di guardare al tema della solitudine interiore, in ambienti geografici affollati e rumorosi, quali possono essere quelli della città, città abbastanza grande e abbastanza anonima da giustificare la sensazione di estrema solitudine e di vuoto individuale, intimo, che si ripercuote idealmente anche all’esterno, per la forza stessa del sentimento provato.
Le due canzoni che ho deciso di prendere in esame e mettere in comparazione, si esprimono in tali termini già nei loro titoli: “Solo” e “Città vuota“.
Il tema di base su cui si appoggiano i due testi è quello del rapporto sentimentale di coppia, anche se io ritengo, proprio a partire dai loro titoli, che il principale motivo portato in scena, sia quello tutto poetico, della sofferenza personale del narrante, che si racconta attraverso la rappresentazione di quadri espressivi, tratteggiati con poche studiate parole; canta la propria condizione interiore di disagio sentimentale, descrivendone la ragione ed anche i fatti più toccanti e l’inutilità di ogni ovvio rimedio, nel dover comunque andare avanti così. Le due canzoni si risolvono infine in epiloghi differenti.

Solo
di Claudio Baglioni

Lascia che sia
tutto così
e il vento volava sul tuo foulard
avevi già
preso con te
le mani, le sere, la tua allegria…
Non tagliare i tuoi capelli mai
mangia un po’ di più che sei tutt’ossa
e sul tavolo fra il thè e lo scontrino
ingoiavo pure questo addio…
Lascia che sia
tutto così
e il cielo sbiadiva dietro le gru
no, non cambiare mai
e abbi cura di te
della tua vita, del mondo che troverai…
Cerca di non metterti nei guai
e abbottonati il paltò per bene
e fra i clacson delle auto e le campane
ripetevo “non ce l’ho con te”
e non darti pena sai per me
mentre il fiato si faceva fumo
mi sembrava di crollare piano piano
e tu piano piano andavi via.
E chissà se prima o poi
se tu avrai compreso mai
se ti sei voltata indietro.
E chissà se prima o poi
se ogni tanto penserai
che son solo.
E se adesso suono le canzoni
quelle stesse che tu amavi tanto
lei si siede accanto a me sorride e pensa
che le abbia dedicate a lei.
E non sa di quando ti dicevo
“mangia un po’ di più che sei tutt’ossa”
non sa delle nostre fantasie, del primo giorno
e di come te ne andasti via…
E chissà se prima o poi
se tu avrai compreso mai
se ti sei voltata indietro.
E chissà se prima o poi
se ogni tanto penserai
che io solo… resto qui
e canterò solo, camminerò solo, da solo continuerò.

In questa prima canzone il narratore, dopo aver reso con le sue descrizioni, il sentimento di profondo affetto che lo lega alla donna, così perduta per sempre, comunica infine il dubbio, che sta accompagnando la sua vita e, di fronte alla amara constatazione della impossibilità per lui di ottenere risposta alla domanda che martella i suoi pensieri, conclude quasi tragicamente, con un quadro dall’immagine statica: la sua vita è quasi ferma, pur nel suo andare avanti, ed in totale solitudine; è un “buongiorno tristezza”, senza speranza all’orizzonte, quell’orizzonte “dietro le gru”, in cui un certo giorno, ha visto fermarsi il suo tempo migliore.

Città vuota
testo di G. Cassia

Le strade piene, la folla intorno a me
mi parla e ride e nulla sa di te
io vedo intorno a me chi passa e va
ma so che la città
vuota mi sembrerà se non ci sei tu
c’è chi ogni sera mi vuole accanto a sé
ma non m’importa se i suoi baci mi darà
io penso sempre a te, soltanto a te
e so che la città vuota mi sembrerà se non torni tu
come puoi tu vivere ancor solo senza me
non senti tu che non finì il nostro amor
le strade vuote deserte sempre più
leggo il tuo nome ovunque intorno a me
torna da me amore e non sarò più vuota la città
ed io vivrò con te tutti i miei giorni
tutti i miei giorni, tutti i miei giorni.

In questa seconda canzone, la narratrice, donna, speranza… pur non concedendo apparentemente alcuna certezza di lieto fine, pronuncia in chiusura, il suo invito accorato al suo amante, instillando viva speranza, la stessa che lei vuole provare, non cedendo alla rassegnazione ed al presente e futuro destino di tristezza, suo e della città intera, che sembra quasi essere essa stessa uno dei soggetti principali della canzone: la città partecipa alla pena del narratore e si trasforma.
Il quadro idilliaco ed invitante, prospettato dalla frase di chiusura, in forma ripetitiva, da eco, a dar maggior forza alle parole, a far sì che senta la persona a cui sono rivolte, è tutto un concentrato di desiderio non trattenuto ed a cui, sarà difficile dire di no.donnina marinaretta


Attesa

“… mi pungeva il desiderio di appellarmi al giudizio del pubblico”

[Pellegrino Artusi, “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene“]
Questa volta sarò breve. Ho deciso di farmi più coraggio e postare una delle mie rare composizioni poetiche.
Nonostante da bambina, la mia amatissima maestra di scuola mi chiamasse “la poetessa”, poi durante la mia vita, ho scritto ben poche liriche. Amo leggerne, per lo più di autori del passato e massimamente (ma non solo) degli italiani, di cui, come ho già detto, apprezzo molto anche i testi di canzoni (vedere il mio “Lampi nel buio”).
Non starò qui a commentare me stessa. Dirò solo che questa mia di seguito è una breve poesia, dalla metrica irregolare, composta di strofe miste ed in cui, le possibili rime si risolvono per lo più in ripetizioni ed assonanze e che, lo stato d’animo che ne ha generato i contenuti, risale ad alcuni anni fa.

Attesa
di F.C.

Chi remunererà il dolore?
Il dolore
immenso,
il dolore
vale più del mondo intero.
Nessun pianeta di
nessun universo
potrà mai ripagare
di un solo dolore.
Nessuno, mai potrà
contare il prezzo
del dolore.
Vedrò infine dissolversi
questa nebbia?
Attendo…

fiori